"Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti."
Riportiamo stralci di un Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO "Diritti umani, democrazia e pace" presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova, sull’Articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani
"L’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
I due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’.
Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.
L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?
All’interno del ‘triangolo’, l’articolo 18 dedica particolare attenzione alla libertà di religione, specificandone i modi di espressione e manifestazione. Il legislatore internazionale è consapevole della delicatezza della materia e dell’impatto che essa ha sulla vita sociale e politica. La religione o un ‘credo’ non sono soltanto un fatto di intimo convincimento che si coltiva nel privato, ma si estrinsecano anche pubblicamente e attraverso organizzazioni che in taluni casi, come quello della Chiesa Cattolica, sono estremamente complesse e ramificate nel mondo intero, oppure, come nel caso dell’Islam, investono direttamente la stessa ‘forma’ statuale della politica.
Libertà religiosa significa anche libertà di cambiare religione o credo o di non credere più. Questo costituisce oggi un grosso problema, esasperato com’è da rigidità ‘fondamentaliste’.
L’articolo 18 dice che la manifestazione della fede religiosa o di un credo è libera di realizzarsi isolatamente e in comune, privatamente e pubblicamente. Se per le rispettive espressioni comunitarie, la religione cattolica ha bisogno di chiese, l’ebraismo di sinagoghe, l’islam di moschee, quanti professano quelle fedi religiose hanno il diritto di pretendere che gli stati consentano la costruzione degli edifici di culto in appropriata forma. Devono esserci appositi spazi pubblici. Qua e là in Italia c’è dibattito sulla costruzione delle moschee. Il vigente Diritto internazionale dei diritti umani è chiaro: lo Stato è obbligato a permetterne la costruzione. E’ appena il caso di precisare che gli edifici religiosi in tanto sono legittimi in quanto alberghino attività di culto (e di preparazione al culto), e non altro.
Un ulteriore spunto per la riflessione riguarda l’obiezione di coscienza, in particolare quella al servizio militare. Per anni, non soltanto in Italia, si è discusso se l’obiezione di coscienza fosse compatibile con i doveri di difendere in armi la Patria. Si veniva anche condannati, come successe per Don Lorenzo Milani, e si andava anche in carcere come successe per alcuni esemplari testimoni di nonviolenza. Poi si discusse se si trattasse di un mero “diritto soggettivo” o di un più impegnativo diritto umano fondamentale. La vecchia Commissione diritti umani delle Nazioni Unite, oggi sostituita dal Consiglio diritti umani, si pronunciò nel senso del diritto fondamentale, assumendo che l’obiezione di coscienza costituisce espressione del diritto alla libertà di coscienza.
Ci sono limiti alla manifestazione del credo religioso o di altro credo o di ateismo? Il terzo comma dell’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) completa l’omologo articolo 18 della Dichiarazione universale: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere sottoposto unicamente alle restrizioni previste dalla legge e che siano necessarie per la tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico o della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altri diritti e libertà fondamentali”.
Alla fine, quale messaggio per le grandi religioni? Che avvertano, insieme con la consapevolezza del loro essere “radici” di grandi culture e di grandi civiltà, anche la responsabilità di disinfestarle da vischiosità ultramondane e fondamentalismi, insomma di pulirle e renderle ancor più feconde attingendo alla sorgente dell’universale: la eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana che in particolare le grandi religioni monoteiste assumono quali creature dell’unico amorevole Padre."